Qualche sera fa ero a cena con un’amica biologa molto specializzata e con esperienze di ricerca alle spalle, che come me è in cerca di lavoro. Mi raccontava che, dopo molte esperienze deludenti in termini di precarietà e di basse retribuzioni, si è stancata di cercare posti da ricercatore . Le piacerebbe ancora più di ogni altra cosa fare la ricercatrice, ma si è un po’ arresa. Mi raccontava anche di avere scoperto di avere maggiore successo nel trovare lavoro nel settore bio-medico se si presenta abbassando le sue qualifiche; eliminando dal CV alcune sue esperienze post-laurea particolarmente avanzate, così possono metterla anche a rispondere al telefono, a fare lavoro amministrativo, etc..
Capita che anch’io sia un professionista molto qualificato che si sta confrontando col mercato del lavoro intellettuale. Anche la mia esperienza non è facile anche se diversa per via del settore (ricerca e valutazione sulle politice pubbliche) in cui mi muovo, in cui sono abbastaza conosciuto. Tuttavia riesco a capire il disagio di chi ha continuato a studiare ed a specializzarsi e si rende conto che quelli che pensava fossero degli asset, sono invece degli elementi negativi nella valutazione di possibili datori di lavoro.
Sono appena toprnato da un viaggio negli Stati Uniti dove ho cercato anche di ristabilire alcuni contatti che potrebbero aprirmi delle opportunità di lavoro. La sensazione è che lì le cose siano un po’ diverse. Non sempre le qualifiche ti aprono tutte le porte: per alcuni lavori effettivamente certi titoli di eccellenza sono un ingombro, ed è normale. Come in Italia, non di meno, contano i contatti che già hai, ossia la reputazione e la disponibilità a parlare bene di te da parte di soggetti influenti o già accreditati nell’ambiente verso cui ti proponi. Ma la sensazione di fondo è che lì ci siano più opportunità di lavoro per persone altamente qualificate.
A questo punto a me viene un pensiero indecente da economista. Le mie convinzioni etiche e politiche lo rifiutano, ma mi sento in dovere di esprimerlo come una possibile spiegazione per quello che stiamo sperimentando in Italia. Non è che il principio del diritto allo studio esteso agli studi universitari può avere creato un’offerta di lavoro in eccesso nel segmento più elevato del mercato del lavoro rispetto alle capacità del sistema economico di assorbirla? Sembra dire qualcosa del genere Charlie Stross in questo post eccellente che qualche tempo fa mi aveva segnalato Alberto su queste stesse pagine.
Amici economisti, colleghi dell’ISFOL che leggete questo blog (come dite, che non lo leggete?) ditemi che non è vero, che mi sto sbagliando e che l’offerta di lavoro ad elevate competenze creerà la sua domanda.
Credo che il dubbio sia venuto a parecchie persone negli ultimi tempi…., ma penso che la situazione sia ben più complicata. Di sicuro ho sempre ritenuto che il gran vociare sulla necessità di innalzare i livelli di istruzione, incrementando il numero di laureati (anziché migliorare la qualità dell’istruzione scolastica, anzi mortificandola sempre di più!), fosse solo un modo per spostare sempre più in avanti l’entrata nel mondo del lavoro dei giovani e non fare emergere il reale livello di disoccupazione giovanile. Le università dal canto loro, per sopravvivere ai tagli ed, a volte, per aumentare le cattedre hanno creato un’offerta abnorme di corsi di laurea – spesso breve.. anzi brevissima – con specializzazioni anche in “smalti per unghie”.
Se a questo forte aumento di laureati più o meno specializzati, aggiungi altre anomalie del “sistema Italia” quali la forte senilizzazione della classe dirigente pubblica e privata – con i pro ed i contro che hai già commentato nel post del 22 novembre – ed il blocco delle assunzioni in tutta la Pubblica amministrazione che potenzialmente è uno dei principali bacini occupazionali per i lavori intellettuali (spaziando dai tecnici specializzati ai profili giuridico amministrativi fino ad arrivare ai super esperti di ricerca e valutazione delle politiche pubbliche come te), ecco che migliaia di persone in gamba e con tanta voglia di lavorare si trova a spasso e, per giunta, etichettata come “bamboccioni”.
Metti un pizzico di brillanti manovre anti-congiunturali, con il blocco totale degli aiuti all’economia privata e dei fondi straordinari e il risultato è subito pronto: una crisi profonda, ancora oggi sfacciatamente negata.
Per quanto poi riguarda il “credenzialismo” a cui accenna Stross, in parte è vero e già da diversi anni penso che avrei fatto meglio a dedicarmi ad un lavoro manuale (a scuola in Meccanica ero molto brava!!!), ma ho la sensazione che, in Italia, sia solo un paravento dietro cui nascondere scelte clientelari, perché spessissimo i profili che si cercano sono o generici, per cui la scelta può essere fatta indifferentemente fra 100.000 persone, o così precisi e dettagliati (laurea in, specializzazione in, dottorato in, esperienza presso, ecc.) che manca solo il codice fiscale….
Come si fa ad uscire da questo loop??? Hai qualche idea??
Speriamo solo che sia a breve o, almeno, prima che le elevate competenze vadano perse.
Il problema è a monte: non è sbagliato il diritto allo studio – inteso come ‘dare uguali possibilità di accedere a tutti i livelli di istruzione’ -, è sbagliato invece ‘lasciare che tutti studino’, come semplice alternativa al lavoro tout court. Il numero chiuso alle università avrà pure un senso, se ovviamente si usa la giusta misura. Si avrebbero università migliori, e laureati più preparati.
Come si può pretendere poi che un laureato in qualsiasi disciplina si accontenti di fare qualunque lavoro? dopo aver investito anni di sacrifici economici e personali più o meno grandi.
Il collo di bottiglia deve essere dopo l’istruzione obbligatoria…non alla fine dell’università: è economicamente inefficiente per tutti…tranne che per le università – che intascano le rette delle migliaia di fuoricorso e/o studenti perditempo.
La nostra offerta di lavoro qualificata, per lo meno quella riguardante i laureati, eccede in maniera esponenziale la domanda effettiva. Non ha senso preparare migliaia di avvocati onni anno, se già ne abbiamo più di Francia, UK e Germania messi insieme.
Le soluzioni ci sono, ma nessuno – di chi ci governa – vuole assumersi la paternità di scelte impopolari (?).
C’è un’aria irrespirabile in Italia…
Ragazzi, che dire, io mi aspetto onestamente che il futuro ci porterà una società più bella di questa in cui ci troviamo. Mi aspetto anche che l’università non sarà più una condizione necessaria per diventare classe dirigente. L’università è senz’altro in difficoltà e probabilmente non rappresenta la componente più dinamica ed innovativa della nostra società.
Non trovi lavoro? Lamentati con il nostro bellissimo tessuto industriale! L’Italia ha avuto un tasso di crescita media del pil dello 0,25% negli ultimi 10 anni. Di laureati in Italia ce ne sono fin troppo pochi rispetto alle altre realta’ europee; il problema deriva dalla mancanza strutturale italiana di saper valorizzare chi ha studiato. L’Italia e’ piena di Pmi (faccio presente che il 90,7% degli occupati italiani dipendono dalle pmi) che arrancano con deficit strutturali, aziende che dovevano chiudere da anni che continuano a sopravvivere aspettando chissa’ che cosa.
Piccolo e’ brutto, e di piccoli ce ne sono fin troppi in Italia