Rural-urban linkages a Largo Spartaco

14 dicembre 2016

Roma è molto grande, al punto che alcuni suoi quartieri appaiono remoti, e perciò estranei ad uno dei tanti immigranti come me.  Anche per questo, come accade a molti altri romani, la parte della città che amo di più è il mio quartiere: il Quadraro.  E il posto che amo di più del Quadraro è Largo Spartaco.  E’ una piazza per me affascinante per diversi motivi; dal punto di vista archiettonico si distingue perchè delimitata da un lato dal grande palazzo dalla forma a boomerang, che tanto mi piace, opera dell’architetto Muratori e parte integrante di un ampio progetto di edilizia economica e popolare degli anni 50 che oggi caratterizza una parte del quartiere.

Inoltre, è da ricordare che questo spazio è stato utilizzato come scenario da Monicelli (1977) nel film “Un borghese piccolo piccolo” , e prima  ancora nel 1962 da P.P. Pasolini in “Mamma Roma“, il che dà anche un’idea intuitiva di quello che la piazza ha rappresentato in certe fasi del ventesimo secolo.  Gli agricoltori inurbati, le nuove comodità della modernità ed anche una certa eleganza, una nuova comunità con tutte difficoltà della convivenza.

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Oggi, anche se è  troppo invaso dalle auto, non si può dire che questo posto rimanga solo un simbolo del passato.  Anzi le mille anime di un quartiere oggi piuttosto popoloso fanno vivere la piazza in un presente forse poco consapevole di tutto quello che rappresenta per me e per la storia della città.  A largo Spartaco ci sono una pizzeria, un bar e una birreria molto frequentati, e colorati murales opera di valenti urban artists come Diavù, Diamond o altri che hanno lavorato nel quartiere.

Diamond - Welcome to Metropoliz, MAAM, Rome, 2013, photo credits - artist

Adicenti alla piazza ci sono il mercato coperto e la strana chiesa dello stesso periodo che pur essendo dall’altro lato della strada, è pressoché invisibile perchè per qualche motivo  si trova ad una quota più bassa del livello stradale di almeno 6-7 metri.

Ma la cosa che per me più caratterizza oggi Largo Spartaco è il settimanale Mercato Contadino Urbano, che per me rappresenta un appuntamento obbligato se mi trovo in città. Io lo considero un lusso che l’amministrazione della circoscrizione mi concede di incontrare agricoltori ed i loro prodotti senza spostarmi da casa più di tanto.  In cosa si distingue da un comune mercato? Proprio per il fatto che dovrebbero essere gli stessi contadini a portare i loro prodotti in città ed incontrare direttamente i consumatori.

Per un consumatore come me, i Mercati contadini in città sono una soluzione vincente per tutti.  Io apprezzo il fatto di venire a apprendere come viene prodotto il cibo che mangio e di poterlo fare in modo piacevole, facendo conoscenza con chi li lavora. Ai produttori  la vendita diretta dovrebbe consentire maggiori margini di guadagno eliminando gli intermediari, . Certo questo sistema si adatta a chi almeno una volta alla settimana ha piacere a condividere coi suoi clienti un po’ della sua vita e del suo lavoro, assieme al prodotto.

Molti degli agricoltori e allevatori praticano l’agricoltura biologica ma a dire il vero non è tanto questo che mi porta a recarmi a Largo Spartaco tutti i Sabati mattina.  La certificazione bio, come altri marchi d’origine e qualità, serve alle aziende alimentari a comunicare col consumatore per il tramite del prodotto alcune informazioni che stabiliscano fiducia e lo rassicurino.  Io non ho bisogno di questo perchè il rapporto di fiducia lo stabilisco (in alcuni casi) direttamente con chi ha lavorato al suo prodotto e con orgoglio lo trasferisce nelle mie mani.  La qualità del prodotto la discutiamo in una conversazione ricorrente in cui si può stabilire un’intesa e una fidelizzazione.  Gli esperti di marketing ci insegnano che molti dei nostri acquisti hanno un connotato emotivo.  Bè in questo caso è ancora più chiaro.simone-robertiello

Quando compro una bottiglia di vino dal mio fornitore Simone, non è certo il marchio bio quello che mi fa sentire sicuro di quello che bevo, ma la innegabile vitalità e genuinità dei suoi (troppi) marchi, uvaggi, etichette.

Quando compro le uova fresche e il formaggio da Riccardo (quello col pugno chiuso) non posso avere dubbi sull’autenticità di quello che mi racconta, e se lo conosceste sarebbe lo stesso per voi.  Fra l’altro tengo una gallina in pensione da lui in virtù di un contratto semplice e geniale di cui magari parlo un’altra volta, che per me ha l’unico difetto di attribuirmi il potere di scegliere la data della fine della sua vita (della gallina).ls-riccardo

Un giorno o l’altro li andrò a trovare nelle loro aziende, ma già così è per me di grande valore il fatto di sapere di incontrarli a Largo Spartaco tutte le settimane.  Con loro ci sono altri agricoltori-venditori che mi stanno simpatici e di cui apprezzo la scelta di vivere e lavorare la campagna, al punto da volerla sostenere con i miei acquisti.  So che i mecrati contadini urbani non possono essere la soluzione per tutti i problemi della filiera alimentare.  Io stesso non compro lì tutto quello che mi serve.  Ma mi sembrano una cosa bellissima.  A  volte le soluzioni sono facili.

E (per gli urbainisti in ascolto) il luogo della prima inurbazione dei migranti del ventesimo secolo verso la capitale, rimane così il luogo in cui il legame città-campagna, per quanto esile, continua a mantenersi vivo.

(prime due foto courtesy Romasparita, e Diamond)

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Fare impresa e legalità al Sud

22 giugno 2016

Ho partecipato a diversi eventi di formazione rivolti a giovani del Sud e incentrati sui temi dell’innovazione, della legalità, dell’imprenditorialità, dei beni confiscati.  A parteciparvi sono ragazzi della rete associazionistica di Libera, che in media sono molto motivati a fare qualcosa per trasformare la società in cui vivono in una dove viga più giustizia e legalità.

Nelle diverse occasioni in cui ho parlato loro, ho cercato di convincerli che il modo più efficace e diretto che hanno a disposizione per promuovere la legalità è di creare un’impresa sana nel loro territorio.  Non è affatto scontato pensare questo, in quanto l’impresa è vista da molti come uno strumento per arrichirsi, se non a discapito del prossimo, disinteressandosi dei bisogni degli altri. Gli argomenti che ho utilizzato a sostegno di questa tesi ho provato a sintetizzarli qui sotto:

  •  Un’impresa che operi con criteri di legalità in certi territori dove la consuetudine è il malaffare, è rivoluzionaria.  Acquistare, vendere, assumere personale, anche licenziarlo, applicando con convinzione la legge è qualcosa di più di un esempio, più di una testimonianza.  Significa realizzare legalità attorno a sé e togliere spazio ai sistemi di potere illeciti.  Come ci hanno insegnato i giudici eroi dell’antmafia, le mafie sono prima di tutto organizzazioni votate al guadagno con mezzi disonesti; contrapporre loro un’economia che funziona come dovrebbe è un modo di contrastarle.
  • Se è vero che le imprese cercano un profitto, per realizzarlo devono soddisfare bisogni umani. Hanno successo se creano benessere per qualcuno.  Le imprese più innovative individuano e soddisfano nuovi bisogni.  Ma anche quelle che si limitano ad offrire beni già esistenti a prezzi più bassi o con migliore qualità, contribuiscono al benessere, direi addirittura alla felicità, di molti. So che si possono citare esempi che contraddicono questo argomento, ma di solito riguardano imprese che svolgono attività illecite o usano metodi illegali, e non è certo questo che vado predicando. Comunque mi interessa presentare le imprese come entità creatrici di benessere – un’0ttica che non viene spesso considerata.
  • Dal punto di vista di un giovane alle prime esperienze non ci sono altre attività che consentono di incidere così tanto nel proprio intorno.  L’impresa è un’organizzazione di persone e mezzi votata a produrre e scambiare beni e/o servizi.  Chi ha a cuore la legalità e la giustizia sociale, farà funzionare la propria organizzazione secondo questi principi.  Nei fatti avrà improntato ai propri valori una piccola parte della società che rientra sotto il proprio controllo.

Sono messaggi che ci tengo a dare proprio in ambienti appassionati della giustizia e del cambiamento sociale (che sono anche quelli che ho più piacere di frequentare), perchè sono quelli in cui l’impresa gode di una cattiva reputazione. Le attività volontaristiche e gratuite che, soprattutto al Sud, attraggono molti giovani di quei circuiti  per me possono fare di meno per promuovere la legalità, rispetto ad un’impresa sana.  Il volontariato, le scelte di chi vota la propria esistenza a rimuovere le ingiustizie, per quanto ammirevoli, rimangono esterne al funzionamento normale della società e vengono viste come un’eccezione, che quasi conferma la normalità dell’illegalità e del clientelismo.  Inoltre, nei fatti, le attività di servizio al prossimo, il movimentismo disinteressato, occupano un periodo transitorio della vità di molti giovani di buona volontà.  Gli stessi giovani “maturando” migrano verso imprese che stanno all’estremo opposto dello spettro, dove finiscono con lo svolgere attività da dipendenti in organizzazioni guidate da logiche tutt’altro che sociali.

I giovani più bravi in tutti i sensi – i più capaci ed i più retti – per migliorare insieme il mondo e la propria condizione, possono fare gli imprenditori.  Proponiamo loro questo.


In poche frasi che policy-maker sono

30 Maggio 2014

Qualche giorno fa riflettevo sulla visione che ho delle politiche di sviluppo e che mi distingue da altri.  Con l’età, a fronte delle molte cose che si perdono, ci si conosce meglio e si acquista il dono della sintesi e forse della semplicità.  Ecco dunque in cosa ancora penso che le mie idee non siano mainstream.

Molti di quelli con cui lavoro operano sulla base dell’assunto che qualunque obiettivo sia raggiungibile dalle politiche pubbliche, basta chiarirsi le idee su ciò che si vuole ottenere ed investirci abbastanza soldi pubblici. Io invece credo che esistano alcuni risultati che non siamo capaci di raggiungere con gli strumenti che oggi conosciamo. (come nella pubblicità della carta di credito: there are certain things that money can’t buy..)

Viceversa, in materia di valutazione delle politiche, molti pensano che la valutazione debba essere applicata alle linee di intervento pubblico di cui siamo certi di riuscire a stimare l’impatto.  Io invece credo che la valutazione esterna, indipendente vada applicata a tutte le politiche, o comunque i criteri di scelta devono essere il valore e la rilevanza e della linea di policy.


Separare il padre dal figlio

29 ottobre 2013

In quest’età di crisi un po’ reale ed un po’ psicologica, mi sembra che un importante modo di intendere il rilancio economico sia in termini di recupero ad un uso produttivo di capitali oggi inerti.  In quest’ottica per me va intesa la eversiva proposta del Fondo Monetario Internazionale di espropriare del 10% tutte le proprietà per abbattere i debiti sovrani e rilanciare gli investimenti.

Ed allora mi vengono in mente le parole che Manlio Rossi Doria scriveva nel 1947, per affermare il criterio della produttività della terra  come guida per la riforma agraria.  Vale la pena di leggerle ancora oggi:

Bisogna saper porre i problemi della trasformazione economica e sociale del Mezzogiorno con l’occhio rivolto non ai soli contadini ma a tutta la società meridionale.  Bisogna riuscire a dividere il padre dal figlio, a convincere i proprietari legati alla terra a spezzare il vincolo di solidarietà con quelli staccati dalla terra; bisogna conquistare gli uomini uno per uno, risvegliando in loro la coscienza di produttori, di tecnici, così da far scomparire dalla loro coscienza la paralizzante influenza della loro posizione di redditieri della terra.

M.  Rossi Doria, Riforma Agraria e Azione Meridionalista, 1947
rossi doria

Mutatis mutandis, dopo più di sessant’anni, e al di fuori del mondo agricolo che oggi riguarda pochi, per me queste parole hanno ancora una potenza interpretativa che è di guida all’azione pubblica.  Anche oggi si tratta, prima ancora di incentivare, di isolare e dare consapevolezza di sé stessa ad una classe sociale trasversale (anche e soprattutto alle famiglie nella cultura italiana) che vuole fare.

Produttori, tecnici, dice Manlio; imprenditori, innovatori, makers diremmo oggi.  Diciamo la stessa cosa.  Sappiamo soprattutto a chi non stiamo pensando


Is it who you know?

13 gennaio 2013

Più di un anno fa pubblicavo qui un idea che da molto tempo mi frullava in testa e che riguarda le politiche di sviluppo e certe forme di spesa pubblica più in generale: che le scelte pubbliche di assegnazione delle risorse siano meno influenzate da clientelismo, corruzione, etc, di quello che la maggioranza delle persone pensano.

Qualche giorno fa l’ho posta come un’ipotesi di ricerca ad Alberto, il mio alter ego avventuroso. In men che non si dica, ho ritrovato questa questione posta come tema guida di un interessante seminario di confronto fra policy makers ed analisti delle reti. Dunque lunedì 20 mi recherò a Venezia a questo incontro che si preannuncia per me stimolante e scomodo, come tutte le vere esplorazioni del nuovo. Cercheremo dati per un esercizio di network analysis finalizzato a testare la mia semplice tesi.

Io porto in dote – orgogliosamente – i dati di opencoesione, che riguardano la spesa pubblica di cui mi occupo, anche se non credo che con quelli riusciremo a costruire delle analisi utili ad affrontare il tema di mio interesse.  Nonostante la sua ricchezza senza precedenti per una base dati liberata al pubblico, secondo me la qualità delle informazioni sui soggetti associati ai finanziamenti della politica di sviluppo non è ancora sufficiente a costruirci su delle analisi di rete.  Ma questo lo vedremo lì.

Il punto importante per me è che voglio provare con l’aiuto di esperti a impostare un analisi quantitativa non sulla base dei dati disponibili, ma della domanda di interesse. Comanda la  domanda, non le informazioni che abbiamo: vi assicuro che nella ricerca come nella valutazione, succede spesso il contrario.  Ne voglio riparlare.


Alla scuola di Albert O. Hirschman

12 dicembre 2012

Ieri è morto Albert O. Hirschman.  I suoi molti appassionati lettori e discepoli ne staranno scrivendo ed io non ho in animo di farlo ora.

Vorrei solo cogliere quest’occasione per ringraziare Luca Meldolesi che insegnando con fedeltà e trasporto Hirschman al suo corso di politica economica a Napoli, mi ha aperto il mondo dell’economia dello sviluppo, un campo di studi in cui ho trovato corrispondenza con quello che a quell’età stavo cercando.  Ho scoperto leggendo le pagine di Albert che alla ricerca delle soluzioni, del possibile, del meglio per gli altri, ognuno di noi può dare un contributo secondo quello che sa fare, che ama fare.  Il possibilismo di Hirschman dunque è stato per me anche la possibilità che finalmente mi veniva aperta di fare cose utili e allo stresso tempo per me affascinanti, stimolanti: tutte le cose buone vanno insieme.

Hirschman, l’ho scoperto poi, era al centro di un vero e proprio ambiente culturale accademico figlio del pragmatismo e dedito all’indagine empirica e orientata al cambiamento, che aveva uno dei suoi centri al Department of Urban Studies and Planning dell’MIT, dove ho studiato. Tiro fuori giusto due ricordi da quell’esperienza, che riguardano Hirschman.  Alla prima lezione di un corso di Political Economy al dip di Scienze Politiche dell’MIT, per conoscersi e rompere il ghiaccio, il prof. chiese a  ciascuno di indicare “who’s your favourite social scientist”. Due terzi delle dichiarazioni andarono per Hirschman (non la mia quella volta, più che altro perchè volevo distinguermi). Quando conseguii il Master, la famosa cerimonia del commencement tipica di tutte le università USA, con la consegna dei diplomi nel prato centrale di Killian Court, confliggeva con la possibilità che mi veniva offerta di passare qualche ora con Albert per parlare dei miei interessi di ricerca.  Quell’anno, lo speaker al commencement era nientemeno che il presidente degli USA in carica Bill Clinton.  Non ci pensai su granchè, anche se già avevo affittato lo strano cappello nero rettangolare ed il mantello.  Mai più usati, neanche in occasione del Ph.D.

Chi mi conosce sa che sono troppo geloso della mia libertà di pensiero per unirmi a clan, società di scopo,  o correnti.  Poi Albert Hirschman  l’ho conosciuto, anche se in fase ormai di declino intellettuale, e come persona non lo mitizzo .  Eppure il capo della mia scuola, se ne esistesse una, scusate oggi il conformismo, è  lui.


Open coesione: what’s next

18 ottobre 2012

Da alcuni mesi è online il sito web che consente di elaborare e scaricare dati sugli interventi della politica di coesione in Italia, i fondi strutturali europei insomma, ed alcuni interventi finanziati con risorse nazionali che hanno la stessa finalità di riequilibrare i divari interni al nostro molto diseguale paese.  Dove sono, in cosa investono, quanto spendono, chi li gestisce e cose del genere.  Ci ho lavorato un po’ anch’io e sono orgoglioso di essere parte di un amministrazione che più che parlare di trasparenza, inizia a praticarla.

Si tratta della più ampia base dati di investimenti pubblici mai resa pubblica in Italia, con più di 500 mila interventi corrispondenti a quasi 17 miliardi di fondi pubblici impegnati.  Su questi dati si possono esercitare analisti interessati a questioni di distribuzione geografica o dimensionale, anche scaricando l’intero database, o semplici cittadini interessati ad un singolo progetto che si attua vicino a casa loro.  Si fa presto a dire trasparenza e open data, ma poi c’è sempre l’inghippo: sistemi di interrogazione che non funzionano, dati che non sono mai quelli di maggiore interesse, aggiornamenti che non si fanno.  In questo caso sembra proprio una cosa vera, provare per credere.

In cosa può migliorare questo sistema?  Certo nella qualità di questi dati.  Infatti qualche errore nel nostro sistema di monitoraggio alimentato da dozzine di gestori di fondi  può ancora trovarsi, ma sono fiducioso che questi errori diminuiranno proprio per effetto dell’uso di queste informazioni, che non è più limitato ai pochi analisti che li possono vedere e li sanno leggere.

Però a mio giudizio la vera frontiera che ci attende come Dipartimento per lo Sviluppo, e come Stato più in generale, consiste nel dare un significato più ampio a questa apertura, ovvero abilitare un flusso di informazioni di senso  opposto rispetto a quello di cui ci siamo occupati fino ad oggi: dai cittadini all’amministrazione.  ora che stiamo imparando a diffondere informazioni, dobbiamo imparare a raccoglierle, filtrarle ed elaborarle: dal pubblico a beneficio del pubblico.  E’ parte del nostro ruolo di Stato creare questo valore fungendo da catalizzatori dei contributi anche volontari dei cittadini che agiscono nell’interesse della collettività. Il problema è come farlo in modo gestibile, ma allo stesso tempo sensibile.

Qualche idea operativa? (tanto per cominciare).


Venture capital as a tool of development policy?

28 giugno 2012

When I first heard a venture capitalist talk about the kinds of projects they are looking for and the kind of risk they take, I thought: “hey, this is very similar to what we should be doing in development policy”.  If only we could strike a well-devised agreement with these guys, we could let them manage a piece of our public funds, and have them select projects that meet simultaneously our criteria and theirs.   It seemed the perfect idea: (1)  VC funds are revolving and thus do not get dissipated in the investment process; (2) the effect of this deployment of money would be additional in the sense that, if we endow VC funds with more resources, additional projects would receive funding that otherwise wouldn’t; (3) the selection is not distorted by clientelism or inefficiency because the interest of the public is aligned with that of the private fund managers who seek to increase the value of their capital.

Is it really so? Given that Venture Capitalists, after all, are financial investors, I am afraid that such agreements would run into the same problems  that have arisen whenever policy has tried to pursue public goals through financial institutions. Interacting with the financial sector is nothing new for development policies.  Public economic development Banks have operated for a long time, both at the national and international level and run large budgets in the form of grants, loans to public bodies and firms.   Private banks intermediate public incentives to firms in exchange for fees.  However,  these institutions in general seem to be more interested in reaping better-than-market conditions for the resources that the State makes available, in earning the fixed fees in exchange for the transactions,  but seldom seem to change their behaviour in the way it is desired and required for  the agreement to work.

The operations of private financial institutions are not easily aligned with the interest of the state.  Theoretically this partnership should work.  In practice there seems to be something in the nature of these financial institutions that makes them unsuitable to work in the interest of the state, while pursuing theirs.

What is it? I am afraid what I am about to say will appear simplistic, naive, almost racist.  I am coming to the conclusion that the problem rests in  the  nature of the people that work in finance. I fear it is something that has to do with the character and motivation of the people that are attracted to finance, and that staff the financial institutions.  A recent article in the Guardian supports my view using stronger words, that I don’t necessarily endorse.

A personal anecdotal experience contributed to my forming of this view. A few years ago  I was talking to a friend who had been working in the financial sector in London and had been recently laid off during the crisis of 2008.   The subjet of our cionversation was the behaviour of financial institutions, derivative financial products, and other operations that potentially cause problems to the stability of markets.  Some words  that he pronounced made such an impression on me that I still remember them literally: “actually -he said – now  that you make me think about it,  the best operations I have been working on in my career are those that, while formally respecting the law, have circumvented the substance of its aims”. I leave anycomment or interpretation of this statement to the reader.

The general point is that without some degree of public mindedness, every agreement between the State and private intermediaries can be formally respected, but circumvented in practice by the private side to extract extra-profits shielded from the forces of competition, without producing the intended public good.

Are venture capitalists similar to other financial operators?  Are they all the same?


Io e la Repubblica: aggiornamenti

2 giugno 2011

Il 17 Marzo, in occasione del 150ennale dell’unità d’Italia annunciavo l’interruzione del mio rapporto di lavoro con il Dipartimento per lo Sviluppo Economico, dove avevo lavorato per più di otto anni prima al ministero dell’Economia, poi in quello per lo Sviluppo Economico.  Oggi due Giugno, per combinazione anche stavolta in occasione di una solenne celebrazione del nostro Stato Repubblicano, rientro nei ranghi del Ministero  come componente dell’Unità di Valutazione.  Il Ministero mi ha rinnovato l’incarico e la fiducia.

E’ il lavoro che mi piace fare e sono contento perchè non sono costretto ad abbandonare l’ipotesi di fondo che ha finora guidato le mie scelte ed il mio operato:  che le istituzioni ed il mercato premiano la buona fede e la voglia di fare.   So che questo è vero solo nei grandi numeri, nel medio periodo, e non proprio sempre.  Ma si tratta di un principio guida a cui per me è importante credere, perchè mi aiuta a vivere meglio.

Sono contento di poter continuare a fare qualcosa per il paese in cui vivo.


La mia storia (interrotta) con lo Stato Italiano

17 marzo 2011

In occasione dell’anniversario della repubblica voglio raccontare la mia parabola di dipendente pubblico come atto di amore (anche se tradito) per lo stato italiano: un’ istituzione in cui nonostante tutto ancora credo e spero.

Nel 2002, appena completato il mio PhD all’MIT di Boston sono tornato in Italia.  Avevo studiato politiche pubbliche e sviluppo internazionale ed ho pensato così di portare le mie conoscenze, e soprattutto la mia voglia di fare, al servizio del paese che mi aveva cresciuto ed educato.  Oltretutto, il ritorno in Italia mi era imposto dal fatto di avere beneficiato di una borsa di studio Fulbright – un programma che, essendo cofinanziato dal Ministero degli affari esteri, vietava di rimanere negli USA al termine degli studi se non fossi prima tornato per almeno due anni in Italia.  Tornavo anche attratto da una sfida stimolante: il Ministero dell’Economia e Finanze proponeva allora una politica di sviluppo regionale per le aree arretrate del paese per molti versi nuova, e scommetteva su persone che come me non potevano contare su conoscenze importanti nella politica o nell’alta amministrazione.

Sono stati anni appassionanti in cui tra mille difficoltà abbiamo cercato di proporre riforme, decentramento, sperimentazione, discussione partenariale fra amministrazioni e fra queste e rappresentanti del privato, un certo grado di trasparenza e valutazione delle politiche.  Poi le cose sono andate gradualmente deteriorandosi.  Le competenze gradualmente sono state sempre meno apprezzate, la routine è prevalsa sul tentativo di migliorare sempre le cose.  Ci sarebbero troppe cose da dire, e le responsablità non sono certo di una sola persona o di pochi. Meglio saltare quindi al finale: il mio incarico all’Unità di Valutazione è scaduto il 10 ottobre scorso, ma i miei capi hanno continuato a farmi lavorare, retribuito, rassicurandomi sulla volontà dell’amministrazione di tenermi.  Poi, a ciel sereno, il 24 gennaio il ministero mi ha comunicato che dal primo febbraio sarei stato sospeso dal lavoro e dalla retribuzione.

Il Ministro non ha mai voluto fimare il mio rinnovo, nè si esprime in senso contrario ad esso.  Io sono a casa in cerca di lavoro.  I progetti che portavo avanti, fra cui Kublai,  hanno subito un duro colpo soprattutto per il protrarsi dell’incertezza, anche se credo che alcune cose vengano portate avanti. Nella mia stessa  situazione sono altri cinque componenti del Nucleo di Valutazione dove lavoravo.  Non mi lamento se vogliono mandarmi via, avrei voluto solo che l’amministrazione mostrasse un po’ di rispetto per il mio lavoro, una volontà o un senso di direzione di qualunque genere che, se reso pubblico, avrebbe consentito a me ed agli altri di fare scelte conseguenti e non improvvisate.  La mia posizione l’ho scritta in questa lettera che, l’ultimo giorno in cui ho lavorato, ho inviato al Ministro sul cui tavolo giace la mia richiesta di rinnovo.  Non ho ricevuto risposta.