10 cose da fare invece di fare la guerra

19 giugno 2022

Credo che la storia ci insegni che l’essere umano ha bisogno di sfogare la sua aggressività, di proiettare su un nemico reale e simbolico i difetti più odiosi, di agire la propria rabbia facendo qualcosa che esca dall’ordinario e affermi il suo punto di vista sul mondo. Se questo è inevitabile, è proprio necessario che a canalizzare questo bisogno sia una vera guerra? Ecco alcune alternative da provare da soli o in compagnia:

  1. Sputare su bandiera o vessillo della comunità avversaria, saltellarci sopra ed eventualmente urinarci sopra.
  2. Urlare a squarciagola slogan o epiteti offensivi verso il gruppo rivale ed eventualmente filmarsi facendolo, così da dare notorietà alle proprie gesta (fattibile anche allo stadio);
  3. Recarsi in un bosco e fingendo che gli alberi siano i nemici, prenderli a schiaffi spallate testate e morsi (chiedo scusa al mondo ambientalista, ma è per una causa superiore);
  4. Ricercare ed annotarsi tutti i record sportivi ed i successi in campo artistico, musciale culturale in cui il proprio gruppo sociale eccelle e confrontarli con quelli dei gruppi rivali evidenziando (solo) ciò in cui si è nettamente superiori;
  5. Cucinare un piatto tipico dell’etnia avversata (ad esempio il gulash se si detestano gli Ungheresi) assaggiarlo per confermare che fa schifo e buttarlo nella pattumiera proclamando la superiorità del proprio (ad esempio la carbonara);
  6. Suonare i campanelli a cui corrispondono dei cognomi che per assonanza potrebbero in qualche modo riferiti all’etnia-nazionalità maligna, e poi scappare (da provare con cautela);
  7. Organizzare un finto talk show con la partecipazione di amici e cugini che si fingono rappresentanti avversi e poi sbraitare “mi faccia parlare, io non l’ho interrotta” e cose simili (solo per i più aggressivi);
  8. Inviare malocchio, malefici, incantesimi, ed in generale sperare il peggio per l’altro;
  9. Organizzare una guerra lampo che sia programmata per durare un infinitesimo di secondo, un tempo a stento sufficiente per la dichiarazione di guerra;
  10. Giocare a Rugby

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Il mestiere di politico

30 giugno 2017

Io non penso che la politica sia “una roba sporca”.  Penso che la si possa fare salvaguardando l’onestà personale.  Penso però che il lavoro del politico inteso come colui che si candida a delle elezioni, non faccia per me.

Il motivo ha a che vedere con quello che Proust scrive a proposito della politica in uno dei volumi della Recherche.

“… répéter ce que tout le monde pensait n’était pas en politique une marque d’infériorité mais de supériorité”. M. Proust, II : A l’Ombre des Jeunes Filles en Fleurs

Una professione che premia chi ripete quello che il maggior numero di persone già dicono e pensano, proprio non può fare per me.  Io forse  a volte cado nel vizio opposto, di voler dire sempre qualcosa che non viene detto, di cercare di presentare in pubblico un punto di vista poco considerato.

Comunque, come dicevo, credo molto nella funzione d’interesse pubblico che questa professione gioca.  Penso che non sia sostituibile dal lavoro dei tecnici come me, e sono contento che ci sia qualcuno che il politico ama farlo.

 

 

 


Perchè non siamo la specie animale che vive più a lungo?

15 aprile 2017

Quando apprendiamo che le tartarughe e altri animali hanno un’aspettativa di vita superiore a quella dell’uomo rimaniamo interdetti, o almeno questo è ciò che succede a me.  Se è vero che l’uomo è la specie più evoluta, perchè non è anche quella che vive di più?

Così divento consapevole di un’aspettativa che in effetti a pensarci bene non ha molto fondamento: evoluzione=durata della vita.  Se siamo la razza animale più evoluta dovremmo essere anche quella che vive di più.  Ma se così non è, a cosa ci serve tutta questa cultura, questa consapevolezza, se non sappiamo trovare il modo di prolungare la nostra aspettativa di vita al di sopra di quella di specie a noi “inferiori”.  Se non sappiamo coltivare quel bene che è in verità l’unico che abbiamo, e da cui dipendono tutti gli altri: la vita.

Il mio povero raziocinio si scopre sempre più limitato e confuso nel pensare a queste cose.  Tra l’altro lo stessa osservazione di partenza non è così scontata.  Dalle informazioni che si possono trovare sul web, sembrerebbe le specie che in media vivono più dell’uomo non siano poi così tante.  Si parla soprattutto di creature marine, squali, vongole e balene, ma le informazioni non appaiono così solide e coerenti, forse a riprova che la questione interessa poco agli scienziati e naturalisti.

 


Due tipi di religioni

20 novembre 2016

Alla fine per me le religioni del mondo si dividono in due categorie: quelle che vogliono convertirti, e quelle che non cercano di farlo.

Inutile dire quale tipologia mi piace di più.

Le religioni che ambiscono a convertire tutto il mondo per me tradiscono un’insicurezza. Come le persone che odiano le scelte che fai quando non coincidono con le loro, come gli omofobi al cospetto di chi fa scelte omosessuali. gli adepti che vogliono convertirti per me sono intimamente insicuri di ciò in cui credono.   Temono di stare sbagliando tutto ed essere vittime di false credenze. Si sentono messi in discussione dalla stessa presenza al loro fianco di persone che hanno fatto una scelta diversa e sono sereni.

D’altra parte, quando qualcuno diventa insistente per convincerti ad andare ad una festa, ti viene il sospetto che la festa non sia divertente.  Se la festa, la rivelazione che avete avuto, è così bella, perchè tanta insistenza?


Religione e geografia

9 giugno 2016

Nel mondo ci sono moltissime religioni.  Sei o sette sono quelle più grandi, anche se poi anch’esse hanno molte versioni al loro interno. Tutte affermano di saper spiegare i misteri della vita e della morte; ciascuna ha dei precetti e delle regole di vita che ci metterebbero in sintonia con l’assoluto. Le più tolleranti riconoscono nei precetti delle altre religioni delle manifestazioni ben intenzionate, ma mal guidate, della stessa verità.

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E’ un ragionamento che dovrebbe spingerci al relativismo. Già il fatto che esistano diverse religioni importanti dovrebbe portarci a prendere ognuna di esse come un tentativo, un anelito verso il sacro, mentre la maggior parte di esse al contrario si presentano (al di là di un pò di cordialità esteriore) come impermeabili a qualunque dialogo o compromesso in termini di credenze, riti, regole.  Mangiare carne di maiale è peccato, punto e basta.

Fin da piccolo mi chiedevo: se Dio è per tutti, perchè proprio la religione che è predominante nel paese dove vivo dovrebbe essere quella vera? Guarda il caso sono stato fortunato a nascere proprio dove abbiamo scoperto le risposte giuste, e sfortunati gli altri?   E’ un ragionamento semplice, quasi scontato, eppure nessuno sembrava farlo.

C’è di più: se siamo nati nella regione del mondo in cui vige la religione vera, come lo spieghiamo? Chi crede fino in fondo alla natura sacra dei precetti e dogmi della propria religione, a ben vedere, considera anche la propria civiltà superiore a tutte alle altre.

Mi sembra di dire delle gran banalità, ma non ho sentito mai da nessuno questo tipo di ragionamento.


Filantropi rinnegati al Sud

1 marzo 2015

Una mia recente visita  in Campania da parenti e amici mi ha fatto riflettere su una dimensione della cultura locale che mi lascia perplesso, e che forse riflette problemi di natura sociale ed economica.

Ci sono diverse persone al Sud che compiono azioni commendevoli per altruismo, per ricercare visibilità, soddisfazione personale, o spinti da altre motivazioni, ma le giustificano con moventi più egoistici, come la ricerca di un tornaconto economico.  Si tratta di una riservatezza, quasi della vergogna di agire in difformità dal registro dominante che vorrebbe che le relazioni fra le persone siano improntate all’egoismo e all’interesse personale.  La rimozione delle reali determinanti del proprio agire in alcuni casi diventa inveterata al punto da rendere il soggetto inconsapevole, o confuso sulle motivazioni dello stesso suo agire. Non so se qualcun altro ha riscontrato comportamenti simili: è figo, o solo socialmente più accettabile, dire che come tutti si gioca a fregare gli altri per promuovere il proprio interesse o quello dei parenti più prossimi, anche quando non è così.  In altre società  a latitudini diverse da quella del Mezzogiorno mi sembra di vedere più spesso il contrario: azioni antisociali tenute nascoste o mascherate dietro facciate eticamente ineccepibili. Si tratta del più consueto “vizi privati e pubbliche virtù”, che al Sud a volte viene ribaltato per conformarsi ad una sorta di etica al rovescio.

E’ certo una grossolana semplificazione che varrà anche solo in certi contesti, ma ne scrivo perchè non mi sembra collimi con altre più affermate descrizioni culturaliste del sottosviluppo, come il familismo amorale di Banfield, o la fracasomania di Albert Hirschmann.  Del primo rappresenta la legittimazione e quasi la celebrazione pubblica, ma per altri versi può essere visto come il suo complementare opposto; la seconda è il presupposto culturale di questi comportamenti, nel senso che la supremazia della visione disfattista impone di “far scomparire” dal discorso gli elementi che sono dissonanti con essa.


Imparare nelle diverse fasi della vita

30 ottobre 2014

Spesso mi lamento del fatto che a causa di impegni di lavoro e di famiglia non ho più tempo per studiare.  In realtà non è che non impari niente del tutto.  Imparo lo stesso delle cose, forse di meno di quando ero studente, sicuramente in modo diverso.

Imparo leggendo molte cose in modo rapido e superficiale e venendo bombardato da moltissime informazioni più e meno richieste, senza aver tempo di dedicare a ciascun argomento il tempo che servirebbe a capirlo a fondo. Imparo in virtù della quantità, più che della qualità dell’attenzione che riesco a dedicare a ciascuna questione.  Per esemplificare questa differenza mi sono venute in mente due immagini alternative.

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La sabbia che cade dall’alto vs. una struttura intenzionalmente costruita.steel-tube-structure-9884652

 

Se immaginiamo che le conoscenze che assorbo siano rappresentate dall’altezza raggiunta dalla costruzione, prima mi proiettavo verso l’alto montando strutture progettate intenzionalmente, oggi punto sulle proprietà fisiche e meccaniche che fanno si che la sabbia versata dall’alto, si accumuli in verticale. Forse in passato costruivo strutture più solide e certo usavo il materiale da costruzione in modo più efficiente, ma se raggiungo più alte vette oggi o allora dipende anche dalla quantità e dalla velocità con cui i materiali mi vengono riversati addosso.


The Masters of Networks and me

18 Maggio 2014

Few days ago in Rome I have taken part in the meeting Masters of Networks II, as part of the Insite project.  Insite is an interdisciplinary research and collaboration project in which David Lane, Paolo Gurisatti and Alberto Cottica are involved: all people that I look at with a mixture of reverence and curiosity.  Many other friends and colleagues were there: Federico Bo, Fabiana Zeppieri, Matteo Fortini and  others that would equally deserve to be mentioned.

The idea behind this event, as I understand it, was simple and powerful: public policies nowadays recognize the importance of networks; sometimes they go as far as declaring their aim to use them as instruments towards their goals, or even to promote their development.  In practice they often do not undenstand networks much. On the other side we have analysts and researchers who have devised powerful tools to describe and analyze networks. The cultural ditch between the two groups – network analysts an policy-makers – is wide and deep.  The two days were meant to be spent by the two communities  to familiarize with each others and to find applications for SN Analysis in response to the problems perceived by public policy.  In our case, we were planning to use the open data released by the Italian Ministry of University Research and Education, the  database of collaborative research projects funded by the national program (PON R&C) funded between 2007 and 2013 by the European Fund for Regional Development.

How did it go? Did it work?  What did I learn about SN analysis and its possible applications?

What factually we ended up doing in the sub-goup I participated in, is reported here.  Let me here focus on a few points of more general interest.

< here a colourful image of the work we did was supposed to appear.  Unfortunately I do not possess a good picture and  honestly it adds very little to the points I am trying to make > 

From my point of view, it was a partial success  in the sense that I intuitively sense the potential for fruitful application of SNA and remain interested in this method, but I have yet to witness the production of any significant  result which  has real implications for policy evaluation or design.

To elaborate in a little more detail:

  • SNA is presented as a mathematical method, and it certainly is if one thinks of things like the indicators that describe the properties of nodes within the network.  However, the images it produces as outputs convey so much insight to the layman, and have the beautiful property of condensing in one snapshot some features of the network, that they seem to me to be more than simply one possible representation of the analysis. If the attention of the novice to SNA is directed almost exclusively towards the pictures, this must mean something. Looking at this method from the outside the images seem to be something more inherent to the method and its current popularity.  To many, the value of SNA is in the big picture comprehensive view more than in the capability to describe the details or the network dynamics.
  • In my opinion, despite the good intentions of everyone, the encounter between policy-makers and social network analysts does not start, and does not proceed, on an even ground. When only one of the two groups holds the keys to the inner workings of this method of analysis, which cannot be transferred in one or two days, then the exhange is necessarily unbalanced. It might be a problem common to any interaction between experts of methods and experts of content-problems, and thus inevitable. Whatever the reason, the feeling that permeates the meeting is that of a one-directional flow of knowledge from the social network field towards the policy field, as if the first form of knowledge were superior to the latter.
  • The degree of interest that such analysis exerts on me is largely determined by the quality of the information available on the links, or “edges” in the SN jargon.  This quality is inevitably, or has always been in the cases I have observed, quite low or in any case not satisfactory from my point of view.  When all links are the same, networks are dull objects to examine.
  • Network science exerts a cetripetal force on me in the sense that as I observe its results largely in the form of graphical outputs, I start becoming curious of the algorythms that are at work behind it.  How “real” is that network form, how sensitive to parameters arbitrarily determined by humans?
  • The gathering together in one room of policy-makers and network scientists has something disorienting in its first moments.  It lacks basic rules of functioning.  Most people don’t really know how to interact with each others because they don’t know why they are there and what they can ask, expect, contribute.  In general I find this aspect intriguing for its fundamental open-endedness.

In general I am a bit confused about what to expect from this work, my mind seems to stop short of fully understanding both the implications and the contours of this method of social inquiry.  That’s why I want to look into it more, and do it again.


L’italianità: una pericolosa ossessione

6 dicembre 2013

Troppi parlano troppo ed in modo ripetitivo delle malattie dell’Italia con una forma curiosa di nazionalismo al contrario: il risultato è che ci ritroviamo in un vicolo cieco mentale. Ad esempio, ogni mattina una trasmissione radiofonica che ascolto con divertimento, trova in questo cliché dell’italiano menefreghista e antisociale sempre nuove occasioni per strappare una risata. Così, oltre che la nostra competitività e la domanda interna, anche il discorso pubblico sembra bloccato e questo mi  sta convincendo che coltivare ad oltranza la nostra distintività  di italiani, ci faccia del male. E’ rassicurante, e si prova quasi un certo piacere nel vedere confermato ovunque il risultato noto delle disfunzioni comportamentali italiane, ma questo non ci fa rendere conto che quelli che ci sembrano essere problemi unici degli italiani sono in realtà i difetti della specie umana.  E anche per la parte che corrisponde al vero, quando ad andare in fissa con l’italianità sono i media, questo lamento assume i contorni di una profezia che avvera sé stessa.l'italiano

Ma perché poi stare sempre a pensare che siamo in Italia, che siamo italiani?  Non è questa la direzione verso cui va il mondo, che ci dovrebbe portare a pensare sempre più su scala europea, planetaria.   Qui sembra al contrario che la nostra italianità sia una maledizione dalla quale non ci possiamo liberare, ma anche di cui non possiamo fare a meno. I media in questo giocano il solito ruolo conservatore, in questo caso nella rappresentazione che danno dei problemi, che non cambia mai.  Il problema della fuga dei cervelli è emblematico in questo senso. Per un ricercatore andare a confrontarsi con il resto del mondo è un momento di arricchimento dal punto di vista personale.  E’ un passaggio che rafforza la propria stima di sé ed il proprio bagaglio accademico. Certo per me è stato così. Perché quindi rappresentarlo sempre come una sconfitta con una narrativa sempre uguale, che non cambia da anni?

Ognuno di noi ha multiple identità –  Italiano, ma anche dipendente pubblico, maschio, genitore, Europeo, nel mio caso – perché non parliamo di più dei pregi e difetti di queste altre categorie di cui facciamo parte?


Crisi lavorativa: la soluzione ebraica.

23 settembre 2013

Come affrontare la crescente incertezza del lavoro? Quali comportamenti ci possono tutelare contro il rischio di perdere la nostra posizione lavorativa, oggi insidiata da crisi di settore o concorrenti disposti a lavorare (anche meglio di noi) per salari più bassi?

Non ne ho idea. Comunque, mi viene in mente quello che mi disse uno dei tanti bravissimi americani di origini ebraica che conobbi nel periodo in cui ho vissuto a Boston.  “A noi ebrei – mi spiegava –  viene insegnato molto presto il valore dell’istruzione.  Una cultura come la nostra è fondata sull’esperienza che da un giorno all’altro ci si può trovare nella condizione di dovere lasciare il luogo in cui si abita senza potersi portare via nulla dei propri averi perchè si può venire perseguitati.  Per questo i mezzi per poter sopravvivere, i soli su cui si può veramente contare, non possono essere i beni materiali che uno possiede, ma devono essere dentro di te.  L’istruzione quindi è il principale investimento (assicurativo direi io) contro le avversità…”.

Qui sto iniziando a ricordare male l’episodio e quindi è meglio che continui con la voce mia.  Se pensiamo che la crisi  che rende insicuro per tutti il mercato del lavoro abbia qualcosa in comune con una persecuzione internazionale, la tragedia degli ebrei e della diaspora potrebbe avere qualcosa da insegnarci. Se qualcuno troverà quest’analogia inappropriata,  con il massimo rispetto per le sensibilità di tutti faccio notare che, se non altro, le due hanno in comune la sensazione di intima insicurezza che causano/hanno causato nelle persone.  Investire in istruzione quindi ha molto senso in queste circostanze, però per me non è la sola cosa in cui l’ebraismo internazionale può ispirarci.   Oltre alle conoscenze tecniche ci sono anche le social skills, più innate, ma su cui si può anche lavorare; e conta anche molto costruirsi una propria rete sociale e mutualistica, qualcosa di simile alla rete che le comunità ebraiche costruiscono nel mondo: una comunità di persone che apprezziamo, e da cui siamo apprezzati. Si tratta di quel “capitale sociale” nella sua definizione originale di Coleman, che è una dotazione personale, una forma di ricchezza delle persone: l’unica vera risorsa che, assieme alle nostre conoscenze, nessuno può toglierci.