Fare impresa e legalità al Sud

22 giugno 2016

Ho partecipato a diversi eventi di formazione rivolti a giovani del Sud e incentrati sui temi dell’innovazione, della legalità, dell’imprenditorialità, dei beni confiscati.  A parteciparvi sono ragazzi della rete associazionistica di Libera, che in media sono molto motivati a fare qualcosa per trasformare la società in cui vivono in una dove viga più giustizia e legalità.

Nelle diverse occasioni in cui ho parlato loro, ho cercato di convincerli che il modo più efficace e diretto che hanno a disposizione per promuovere la legalità è di creare un’impresa sana nel loro territorio.  Non è affatto scontato pensare questo, in quanto l’impresa è vista da molti come uno strumento per arrichirsi, se non a discapito del prossimo, disinteressandosi dei bisogni degli altri. Gli argomenti che ho utilizzato a sostegno di questa tesi ho provato a sintetizzarli qui sotto:

  •  Un’impresa che operi con criteri di legalità in certi territori dove la consuetudine è il malaffare, è rivoluzionaria.  Acquistare, vendere, assumere personale, anche licenziarlo, applicando con convinzione la legge è qualcosa di più di un esempio, più di una testimonianza.  Significa realizzare legalità attorno a sé e togliere spazio ai sistemi di potere illeciti.  Come ci hanno insegnato i giudici eroi dell’antmafia, le mafie sono prima di tutto organizzazioni votate al guadagno con mezzi disonesti; contrapporre loro un’economia che funziona come dovrebbe è un modo di contrastarle.
  • Se è vero che le imprese cercano un profitto, per realizzarlo devono soddisfare bisogni umani. Hanno successo se creano benessere per qualcuno.  Le imprese più innovative individuano e soddisfano nuovi bisogni.  Ma anche quelle che si limitano ad offrire beni già esistenti a prezzi più bassi o con migliore qualità, contribuiscono al benessere, direi addirittura alla felicità, di molti. So che si possono citare esempi che contraddicono questo argomento, ma di solito riguardano imprese che svolgono attività illecite o usano metodi illegali, e non è certo questo che vado predicando. Comunque mi interessa presentare le imprese come entità creatrici di benessere – un’0ttica che non viene spesso considerata.
  • Dal punto di vista di un giovane alle prime esperienze non ci sono altre attività che consentono di incidere così tanto nel proprio intorno.  L’impresa è un’organizzazione di persone e mezzi votata a produrre e scambiare beni e/o servizi.  Chi ha a cuore la legalità e la giustizia sociale, farà funzionare la propria organizzazione secondo questi principi.  Nei fatti avrà improntato ai propri valori una piccola parte della società che rientra sotto il proprio controllo.

Sono messaggi che ci tengo a dare proprio in ambienti appassionati della giustizia e del cambiamento sociale (che sono anche quelli che ho più piacere di frequentare), perchè sono quelli in cui l’impresa gode di una cattiva reputazione. Le attività volontaristiche e gratuite che, soprattutto al Sud, attraggono molti giovani di quei circuiti  per me possono fare di meno per promuovere la legalità, rispetto ad un’impresa sana.  Il volontariato, le scelte di chi vota la propria esistenza a rimuovere le ingiustizie, per quanto ammirevoli, rimangono esterne al funzionamento normale della società e vengono viste come un’eccezione, che quasi conferma la normalità dell’illegalità e del clientelismo.  Inoltre, nei fatti, le attività di servizio al prossimo, il movimentismo disinteressato, occupano un periodo transitorio della vità di molti giovani di buona volontà.  Gli stessi giovani “maturando” migrano verso imprese che stanno all’estremo opposto dello spettro, dove finiscono con lo svolgere attività da dipendenti in organizzazioni guidate da logiche tutt’altro che sociali.

I giovani più bravi in tutti i sensi – i più capaci ed i più retti – per migliorare insieme il mondo e la propria condizione, possono fare gli imprenditori.  Proponiamo loro questo.

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Separare il padre dal figlio

29 ottobre 2013

In quest’età di crisi un po’ reale ed un po’ psicologica, mi sembra che un importante modo di intendere il rilancio economico sia in termini di recupero ad un uso produttivo di capitali oggi inerti.  In quest’ottica per me va intesa la eversiva proposta del Fondo Monetario Internazionale di espropriare del 10% tutte le proprietà per abbattere i debiti sovrani e rilanciare gli investimenti.

Ed allora mi vengono in mente le parole che Manlio Rossi Doria scriveva nel 1947, per affermare il criterio della produttività della terra  come guida per la riforma agraria.  Vale la pena di leggerle ancora oggi:

Bisogna saper porre i problemi della trasformazione economica e sociale del Mezzogiorno con l’occhio rivolto non ai soli contadini ma a tutta la società meridionale.  Bisogna riuscire a dividere il padre dal figlio, a convincere i proprietari legati alla terra a spezzare il vincolo di solidarietà con quelli staccati dalla terra; bisogna conquistare gli uomini uno per uno, risvegliando in loro la coscienza di produttori, di tecnici, così da far scomparire dalla loro coscienza la paralizzante influenza della loro posizione di redditieri della terra.

M.  Rossi Doria, Riforma Agraria e Azione Meridionalista, 1947
rossi doria

Mutatis mutandis, dopo più di sessant’anni, e al di fuori del mondo agricolo che oggi riguarda pochi, per me queste parole hanno ancora una potenza interpretativa che è di guida all’azione pubblica.  Anche oggi si tratta, prima ancora di incentivare, di isolare e dare consapevolezza di sé stessa ad una classe sociale trasversale (anche e soprattutto alle famiglie nella cultura italiana) che vuole fare.

Produttori, tecnici, dice Manlio; imprenditori, innovatori, makers diremmo oggi.  Diciamo la stessa cosa.  Sappiamo soprattutto a chi non stiamo pensando


“Ci rubate il futuro”

17 ottobre 2011

In questo momento conflittuale e confuso c’è una affermazione che sento ripetere in diverse varianti nei dibattiti pubblici, che mi lascia particolarmente sconcertato.  Molti giovani studenti delle superiori o dell’università dicono cose tipo: “noi non abbiamo futuro”, oppure “ci avete/hanno rubato il futuro”.  A volte l’ho sentito dire a degli adulti già inseriti nel mondo del lavoro: “questi ragazzi non hanno futuro, guardano al futuro senza speranza”.

Ora: che cosa ne sa un giovane di 15 o di vent’anni su quello che sarà il suo futuro?  Se gli economisti hanno mostrato di capirci poco, perchè un ragazzo dovrebbe essere in grado di fare delle previsioni?  A me sembra che quest’affermazione esprima un malessere tutto odierno, più che un problema che riguarda il futuro.  Che giovani sono quelli che non pensano di potersi inventare un futuro nuovo, di poter riscrivere le regole secondo cui vivere?  Secondo me ripetono opinioni che sono dei loro zii e genitori, più che esprimere una visione propria, e questo è deprimente.

Se un mondo fatto di lavoro sicuro e pensione per tutti così come lo abbiamo conosciuto in passato davvero non fosse più sostenibile di qui in avanti, questo significhererbbe “non avere futuro”?  Forse la società ha in serbo qualcosa di meglio per loro; a me non stupirebbe. E poi, da quando in qua i giovani sperano in un futuro uguale a quello dei loro genitori e crescono timorosi di perdere questa possibilità?   Coraggio ragazzi, avete la possibilità di dire qualcosa di più originale, di più sentito.


Non credo dovvero sia colpa di nessuno …

22 novembre 2010

Rifletto da un po’ sulla questione generazionale negli ambienti di lavoro.  Molti ormai dicono che questo non è un paese per giovani ed io sono d’accordo.  A ben pochi giovani viene dato accesso a posizioni di autorità.  Vegliardi che sarebbe più naturale incontrare al parco a spingere passeggini occupano quei posti da lustri ed attivamente si oppongono, con energia e creatività, ad ogni ipotesi di un loro avvicendamento.  Lo dico con serenità perché la cosa mi riguarda poco, primo perché non sono nè giovane né vecchio, poi  in quanto non mi sento portato per ruoli di alta responsabilità.

Oggi ci pensavo dal punto di vista dell’organizzazione del lavoro e dei suoi costi, e quasi capivo le ragioni di questa situazione di inerzia.  In una società con la nostra mentaità, sollevare una persona di esperienza da una posizione di potere e sostituirla con un giovane meno esperto – di fatto mettere un anziano alle dipendenze di un giovane – mette a repentaglio la produttività di un organizzazione.  L’anziano in molti casi non riconoscerebbe quell’autorità e l’organizzazione sopporterebbe dei costi elevati.  Per certi versi più facile che la sua “deposizione”consista in un prepensionamento o licenziamento dell’anziano; certo laddove si può, perchè dove il posto di lavoro è tutelato molto come nelle grandi aziende o nel pubblico, dove lavoro io, questa strada è piena di problemi.  L’anziano esperto è probabile che smetta di lavorare ed inizi a recriminare, con grave spreco di risorse umane.  La strada più semplice per chi organizza il lavoro è lasciare la responsabilità in capo a chi già ce l’ha.

E pensare che un po’ di scambio di ruoli servirebbe a tutti ad imparare.