Gli spazzini volontari e la necessità di uno Stato

11 marzo 2018

Da qualche tempo a Roma (e altrove?) si possono incontrare giovani di chiara origne africana che volontariaente si mettono a spazzare dei marciapiedi piuttosto sporchi in posti dove c’è molto passaggio.  In cambio chiedono una piccola donazione con un messaggio tipo quello della foto.  A principio vederli fa piacere: alcuni trovano la cosa intelligente; altri inteneriti lasciano qualche moneta.

Sembrano sopperire ad un servizio pubblico carente e suscitano simpatia perchè preferiscono rendersi utili piuttosto che chiedere l’elemosina in cambio di nulla.

Però poi, se prestiamo un po’ più di attenzione a ciò che veramente fanno, magari fermandoci qualche minuto a guardarli, ci rendiamo conto che la situazione è un po’ meno desiderabile di quello che sembra.

Una volta trovato un posto conveniente dove c’è un discreto passaggio di gente, lo spazzino volontario  non lo pulisce veramente.  Spazza continuamente negli stessi punti spostando con la scopa mucchietti di sporcizia di qua e di là, senza mai veramente portarla via.  Perchè dovrebbe? E’ l’atto di scopare quello che gli procura le donazioni, più che il risultato di pulizia.  Diverso sarebbe se un gruppo di cittadini residenti o negozianti della zona lo retribuissero solo a lavoro completato, quando il marciapiede è pulito.

Tutto ciò mi fa rendere conto della necessità che abbiamo di un servizio pubblico.  Le nostre tasse non sostengono solo il moto delle braccia di chi spazza, ma anche il lavoro di chi organizza e verifica.   Non sempre questa catena di servizi funziona, lo sappiamo, ma è difficile sostituirla con inizative volontarie ed estemporanee i cui promotori non hanno gli incentivi giusti.

 

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Differenze fra l’Italia e gli USA

17 luglio 2011

Ho vissuto veramente solo in due nazioni: l’Italia e gli Stati Uniti, che sono un paese a cui noi italiani guardiamo con ammirazione per comprensibili ragioni storiche, ma che critichiamo anche guidati da molta ideologia e poca conoscenza diretta.  L’America per molti anni ha rappresentato nell’immaginario il senso di direzione dell’evoluzione del nostro paese, ma anche un modello che  inseguiamo senza mai raggiungere.  Anche in questo momento di crisi, la società americana sembra più giovane e dinamica della nostra.  Io vorrei parlare di tre differenze poco note o sottovalutate per l’importanza che hanno nel segnare un solco profondo fra i due paesi.

(1) Gli americani si fanno la doccia tutte le mattine dei giorni lavorativi.  Sembrerà una curiosità senza senso, ma la giornata dell’americano tipo parte sempre con una doccia con cui si prepara ad andare incontro al mondo.  Io stesso, che prima mi lavavo in modo meno regolare dal punto di vista degli orari, dopo avere vissuto negli USA per alcuni anni, ho acquisito la astessa abitudine, che conservo ancora oggi.  Non so bene che cosa significhi, ma secndo me non è, nei grandi numeri, un fatto irrilevante.

(2) Gli americani lavorano di più.  Non necessariamente meglio, ma lavorano più ore.  Questo è un fatto noto agli economisti. Quando si è cercato di capire le ragioni del divario di produttività fra Italia e USA, hanno scoperto che questa quasi scompare a parità di ore lavorate.  I lavoratori americani  nel settore privato a inizio carriera hanno diritto solo a 11 giorni di ferie pagate l’anno, che poi aumentano nel corso degli anni ma non raggiungono mai i livelli nostri.

(3) Gli americani lasciano la casa dei propri genitori a 18 anni.  Questo vale sia che vadano all’università, sia se iniziano la carriera lavorativa.  Mi sembra superfluo sottolineare l’importanza che questa norma sociale non scritta, e che ha pochissime eccezioni, ha sul fnzionamento della società. 

Così è una società produttiva, flessibile e dinamica, se vi piace. Non sto dicendo però che queste caratteristiche mi piacciano tutte o che debbano essere prese in blocco, se ce ne piacciono alcune.


Io e la Repubblica: aggiornamenti

2 giugno 2011

Il 17 Marzo, in occasione del 150ennale dell’unità d’Italia annunciavo l’interruzione del mio rapporto di lavoro con il Dipartimento per lo Sviluppo Economico, dove avevo lavorato per più di otto anni prima al ministero dell’Economia, poi in quello per lo Sviluppo Economico.  Oggi due Giugno, per combinazione anche stavolta in occasione di una solenne celebrazione del nostro Stato Repubblicano, rientro nei ranghi del Ministero  come componente dell’Unità di Valutazione.  Il Ministero mi ha rinnovato l’incarico e la fiducia.

E’ il lavoro che mi piace fare e sono contento perchè non sono costretto ad abbandonare l’ipotesi di fondo che ha finora guidato le mie scelte ed il mio operato:  che le istituzioni ed il mercato premiano la buona fede e la voglia di fare.   So che questo è vero solo nei grandi numeri, nel medio periodo, e non proprio sempre.  Ma si tratta di un principio guida a cui per me è importante credere, perchè mi aiuta a vivere meglio.

Sono contento di poter continuare a fare qualcosa per il paese in cui vivo.


La mia storia (interrotta) con lo Stato Italiano

17 marzo 2011

In occasione dell’anniversario della repubblica voglio raccontare la mia parabola di dipendente pubblico come atto di amore (anche se tradito) per lo stato italiano: un’ istituzione in cui nonostante tutto ancora credo e spero.

Nel 2002, appena completato il mio PhD all’MIT di Boston sono tornato in Italia.  Avevo studiato politiche pubbliche e sviluppo internazionale ed ho pensato così di portare le mie conoscenze, e soprattutto la mia voglia di fare, al servizio del paese che mi aveva cresciuto ed educato.  Oltretutto, il ritorno in Italia mi era imposto dal fatto di avere beneficiato di una borsa di studio Fulbright – un programma che, essendo cofinanziato dal Ministero degli affari esteri, vietava di rimanere negli USA al termine degli studi se non fossi prima tornato per almeno due anni in Italia.  Tornavo anche attratto da una sfida stimolante: il Ministero dell’Economia e Finanze proponeva allora una politica di sviluppo regionale per le aree arretrate del paese per molti versi nuova, e scommetteva su persone che come me non potevano contare su conoscenze importanti nella politica o nell’alta amministrazione.

Sono stati anni appassionanti in cui tra mille difficoltà abbiamo cercato di proporre riforme, decentramento, sperimentazione, discussione partenariale fra amministrazioni e fra queste e rappresentanti del privato, un certo grado di trasparenza e valutazione delle politiche.  Poi le cose sono andate gradualmente deteriorandosi.  Le competenze gradualmente sono state sempre meno apprezzate, la routine è prevalsa sul tentativo di migliorare sempre le cose.  Ci sarebbero troppe cose da dire, e le responsablità non sono certo di una sola persona o di pochi. Meglio saltare quindi al finale: il mio incarico all’Unità di Valutazione è scaduto il 10 ottobre scorso, ma i miei capi hanno continuato a farmi lavorare, retribuito, rassicurandomi sulla volontà dell’amministrazione di tenermi.  Poi, a ciel sereno, il 24 gennaio il ministero mi ha comunicato che dal primo febbraio sarei stato sospeso dal lavoro e dalla retribuzione.

Il Ministro non ha mai voluto fimare il mio rinnovo, nè si esprime in senso contrario ad esso.  Io sono a casa in cerca di lavoro.  I progetti che portavo avanti, fra cui Kublai,  hanno subito un duro colpo soprattutto per il protrarsi dell’incertezza, anche se credo che alcune cose vengano portate avanti. Nella mia stessa  situazione sono altri cinque componenti del Nucleo di Valutazione dove lavoravo.  Non mi lamento se vogliono mandarmi via, avrei voluto solo che l’amministrazione mostrasse un po’ di rispetto per il mio lavoro, una volontà o un senso di direzione di qualunque genere che, se reso pubblico, avrebbe consentito a me ed agli altri di fare scelte conseguenti e non improvvisate.  La mia posizione l’ho scritta in questa lettera che, l’ultimo giorno in cui ho lavorato, ho inviato al Ministro sul cui tavolo giace la mia richiesta di rinnovo.  Non ho ricevuto risposta.